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Fare ciò che si ama. E’ possibile?

Fare ciò che si ama. E’ possibile? Il lavoro è sempre stato connotato da fatica fino a diventare sinonimo di costrizione e di sforzo. Il sostantivo latino labor indica “fatica, pena, riconducibile al verbo labare, che vuol dire qualcosa come “vacillare sotto un peso. Le condanne bibliche al dolore sono note – per l’uomo “attraverso la fatica del lavoro”, per la donna “attraverso il travaglio del parto”. Si intrecciano e rivelano la loro comune origine.

Tutti noi condividiamo l’idea di un lavoro come “mezzo” per guadagnarsi da vivere (dobbiamo pur pagare le bollette, no?). E questo si presenta cosi terribilmente spontaneo e facile ai nostri pensieri, come cosa tanto ordinaria che dichiarare una semplice preferenza, “voglio questo e non quest’altro, ma forse l’altro ancora è meglio”, costituisce la nostra più grande miseria e non la più sublime delle libertà.

Un permanente dramma ci spinge nel vicolo buio dell’urgenza; quella condizione, cioè, che richiede interventi immediati e rapidi, “non posso fare altro, non ho scelta, datemi un lavoro qualsiasi”.

Si dice che siano il piacere e il dolore le due chiavi essenziali che ci spingono ad agire: evitando il dolore non ci resta che il piacere. Il dolore, anche quello che definiamo “buono” è una ferita che non guarisce mai, anche accompagnato dalla consapevolezza della degradazione fisica e morale che uomini e donne subiscono, o meglio si infliggono, lavorando senza creatività, in ambienti psicologicamente inquinati.

E’ questa l’essenza dei nostri bisogni, siano essi materiali o psicologici? E quando non riusciamo a soddisfarli, incapaci di ridurre la tensione che il loro insorgere provoca? Che fare?

Tenteremmo la via della sublimazione, il facile adattamento alle necessità della vita, o a specifiche condizioni e situazioni, l’abitudine al mondo esterno.

E se il piacere diventasse un gigantesco Luna Park, dove in cambio di qualche spicciolo ci è permesso di utilizzare ogni forma di attrazione? Nessun divieto, nessun peccato, nessun limite. Non lo so, domande a cui non oso rispondere ed anche questo mio generalizzare è solo un modo conveniente per affrontare la questione “lavoro”, ben informato che la realtà è più complessa di quanto sembri.

Ciononostante, credo che ogni uomo crea (consciamente o meno) la sua propria, specifica realtà, quella di cui ha bisogno per la sua inevitabile evoluzione. Ognuno esprime una sua personale verità, così come la sua esperienza gli consente di percepirla, ognuno sa unicamente quello che si permette di sapere.

In ogni caso, ciò conferma che abbiamo perso l’intenzionalità ad orientare la nostra vita. Consapevolmente e con deliberato proposito non abbiamo definito la nostra posizione rispetto ai punti cardinali, non riconosciamo più il luogo in cui ci si trova, la direzione che si sta seguendo. Per qualcuno il lavoro è l’equivalente del gioco per i bambini: ossia un’occasione per stabilire rapporti sociali al di fuori della famiglia, imparare ad affrontare e risolvere nuove sfide e problemi, promuovere lo sviluppo di abilità fisiche e mentali, una fonte di divertimento.

Che volete, sono fortunato, non sono io è la dea bendata a distribuire benessere e ricchezza, naturalmente solo ad alcuni, ai molti infelicità e sventura.

“Spendi tutta la tua forza, il tempo, l’energia e tutto quello che hai, per realizzare quello che veramente ami!”

Sembrerebbe un invito tutto sommato ragionevole. Eppure, se fosse possibile… con una simile esortazione, rivolta non solo a noi stessi ma a un’audience planetaria, a milioni di uomini, potremmo risolvere tutti i problemi del mondo con un solo schiocco delle dita. Ma occorrono anni di auto-osservazione e di attenzione per riscoprire la volontà, per riguadagnare l’integrità perduta.

Per i giovani, probabilmente è più semplice scoprire quello che veramente vogliono.

La tenacia non è ancora completamente sepolta.

Ma tranquilli, la scuola è li per farlo.

“La buona scuola” elimina tutto ciò che è di sostegno e stimolo ai sogni. Con false e inutili nozioni, lega i giovani a paure, superstizioni e permette al sonno ipnotico di confinarli nel ghetto di un’umanità che dipende.

Le scuole sono strumenti per educare una civiltà a concepire il lavoro come dolore, come condanna; una società che per funzionare una volta usava gli schiavi, oggi ha bisogno di educare un esercito di potenziali sconfitti; nella lotta, in una competizione, in un confronto, nel gioco, in una scommessa.

Il gusto del gioco, la freschezza delle impressioni, l’entusiasmo, l’adattabilità, il coraggio, vengono sostituiti giorno dopo giorno da emozioni solo apparentemente umane: invidia, gelosia, rancore, ansietà, timore. Con l’acquisizione di abitudini insane, come il lamentarsi, il parlare eccessivo, il nascondersi e il mentire, con l’imitazione di quelle deformazioni del viso che sono le maschere della loro degradazione.

Rinchiudere la libertà di un bambino, trattarlo come contenitore vuoto su cui imprimere ideologie e nuove teorie antropologiche, è un’immoralità che l’umanità così com’è non riesce a vedere e che paga con i mille mali sociali di cui è afflitta e con un’economia fondata sul disastro.

Chi ama quello che fa non dipende. Chi ama non ha un tempo da vendere…

L’economia fondata sul lavoro? Davvero?

Io vedo solo dati, numeri a cui si vuole dare un valore, e attraverso i quali si presume di poter trarre informazioni utili.

La definizione e la misurazione di queste grandezze è importante perché permette di calcolare alcuni indicatori che sono usati per capire il mercato del lavoro”.

Importante per chi?

Per una forza lavoro che definite “potenziale”, ovvero quel sottoinsieme di persone che si dichiarano in cerca di lavoro, “disponibili a lavorare nelle prossime due settimane e anche se non lo hanno fatto nelle ultime quattro settimane?

Una risata avrebbe dovuto seppellirvi, questa almeno era la speranza. Non siamo riusciti a ridere, non più di tanto almeno. Sono ancora li, potenti più che mai.

La felicità è economia, mentre con deliberato proposito create uomini capaci di accettare l’insopportabile dolorosità del dipendere, letteralmente.

Essere in potere, in facoltà di qualcuno, essere soggetto all’autorità, alla volontà altrui”. Perché?

Si vuole imprimere, in sostanza, una sola cosa: la possibilità di un fallimento come unica caratteristica di ciò che può realizzarsi in avvenire.

Perché? E’ semplicissimo.

Perché diventi una disposizione naturale, una tendenza a ripetere determinati atti, a rinnovare sempre le stesse esperienze.

Il cambiamento? E’ faticoso e difficile, ed incerto è il risultato.

In una società sana non esiste il fallimento. Un insuccesso non è fallimento, un obiettivo mancato non è fallimento. Il fallimento è mancanza. L’insuccesso è pratica e conoscenza.

Come lo sferragliare del treno, che dopo qualche tempo non avvertiamo più, così la dolorosità del dipendere diventa per noi tutt’uno con l’esistenza, una costante naturale e, per assurdo, una presenza rassicurante della vita. Abbandonarla sarà, da adulto, un’impresa impossibile.

teatroimpresa

Interessato al mondo della comunicazione e formazione in generale, (e in particolare al più importante mezzo di comunicazione di massa, come quello televisivo) nelle sue mille sfaccettature, in considerazione dell’importanza crescente che i processi di comunicazione acquisiscono nell'ambito della società moderna determinando così profondi cambiamenti nei modelli di comportamento e nelle relazioni sociali. Sono altresì interessato al processo di formazione dell'arte in una società tecnologicamente avanzata come la nostra, in cui la realtà virtuale è sempre più pressante e invadente. L’attività si sviluppa attraverso un’associazione che opera in continuità con la propria vocazione no profit e che incarna la vocazione alla partecipazione e alla ricerca presupposti irrinunciabili ai fini di una coerente ed efficace azione progettuale e una società dedicata alle componenti progettuali e gestionali dell’azione in campo culturale, e che consente una risposta più efficace e pertinente alla crescente domanda di un approccio imprenditoriale e di una visione aziendale nella gestione dei mercati culturali.

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