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Il DESIDERIO di comprare quella cosa

Il desiderio di comprare quella cosa non qualcosa.

Nell’immaginario collettivo (per quanto il concetto da più parti venga messo in discussione) si ritiene che il venditore sia una figura che basa il proprio successo su doti naturali di comunicatività, brillantezza e bravura ad improvvisare.

Questo è indubbiamente vero.

Lo è a tal punto che tutti vorremmo essere dei bravi venditori pur non avendo nulla da vendere: intendo con ciò indicare una tendenza, la possibilità cioè di perseguire intenzionalmente un prepotente bisogno ritenuto utile al conseguimento di uno stato di benessere materiale o morale.

Da uno stato di disagio, sentire impellente la necessità di possedere qualità che si presume (il venditore) abbia.

C’è qualcuno che non vorrebbe esprimersi e farsi intendere con incredibile facilità, riuscire semplicemente, con naturalezza, trasmettere agli altri i propri sentimenti?

Chi non vorrebbe essere, una persona che si fa notare per capacità e doti fisiche, suscitare ammirazione perché particolarmente felice e fortunato.

Essere vivace, pieno, smagliante e solare.

Ditemi, in una società come quella odierna, c’è qualcuno che non ha interesse a quanto descritto?

Una società, peraltro, da esperti definita “complessa” (non è difficile capire quanto), visto che al suo interno devono convivere differenti e numerose culture con dottrine filosofiche, religiose e morali differenti e dove i giovani si caratterizzano per essere sfiduciati, incerti in uno stato di precarietà continua, quasi “esistenziale”.

Si, in parte è una caratteristica della loro età: ma fino a quando? Un’identità si forma proprio attraverso le risposte che ognuno riesce a dare alla propria titubanza. Risposte da costruire sia individualmente che socialmente.

Ma come?… se in questo paese – più che altrove – quest’incertezza si è estesa a livelli esagerati. Le “qualità” sopra dette, allora, appaiono più che mai utili.

L’espressione “agente commerciale” ovvero il comunicare ad altri ciò che si è, al contrario, viene comunemente percepito in altro modo. Una figura cioè, che si fonda sull’acquisizione di specifici comportamenti e di competenze strutturate. Non è caratterialmente così, non manifesta spontaneamente un pensiero e un sentimento, non è il suo, un atteggiamento naturalmente caratterizzato; ma necessita di assimilare, conseguire, venire in possesso di qualcosa sul piano intellettuale, per essere ciò che dice di essere.

La realtà è quasi sempre più stimolante nel determinare il significato di una parola o comunque di una espressione verbale mediante una frase:

non è che tutti vorremmo essere dei venditori è che tutti in qualche modo lo siamo già.

Camminiamo, intenti a guardare il nostro smartphone, improvvisamente qualcosa attira la nostra attenzione.

In una vetrina ben fatta di un negozio, una di quelle organizzate apposta per agganciare i passanti e invogliarli a comprare, non con prodotti accatastati cosi, solo per far vedere cosa si vende, ma esposti in modo tale da suscitare interesse ed emozione, notiamo una cravatta posata accanto a un cappello di raso, oppure una borsa straordinariamente bella, molto più bella di quella che portiamo ogni giorno.

Bene, pensiamo di vederla meglio da vicino ed eventualmente contrattare sul prezzo.

Facciamo per entrare ma sulla soglia per una qualche misteriosa ragione abbiamo un attimo di esitazione: che succede?

E’ il momento in cui vendiamo a noi stessi il desiderio o la necessità dell’acquisto.

Beninteso, non sto parlando del cosiddetto “acquisto impulsivo”, cioè comperare qualcosa perché ci è stato spacciato come bisogno, anche se, in realtà, è completamente inutile.

Mi riferisco ad una condizione reale, che esiste in sé e per sé, che si compri un pacchetto di caramelle o una macchina lussuosa.

Riguarda tutti indistintamente, anche gli individui più “risparmiosi”, soprattutto.

Con “risparmiosi” alludo ad una qualità che vuol conferire valore alle cose, una disposizione naturale a fuggire ciò che è stupido per pensare esclusivamente al bene di sé.

Sono coloro che saggiamente sanno organizzare la propria realtà in modo intelligente, non in una condizione paranoica in cui si tende a rinunciare a tutto e dove una minima spesa quasi sempre considerata “inutile”, provoca uno stato di ansia e di sofferenza.

Per loro (i “risparmiosi” appunto) non sarà un semplice acquisto, ovvero prendo qualcosa in cambio di denaro, ma un vero “trasferimento di proprietà” che sia una cosa un bene o un diritto, contro il corrispettivo di un prezzo. Venderanno a se stessi con tale attenzione e scrupolo da farsi mille obiezioni, e ognuna delle quali, possiamo star tranquilli, troverà una risposta adeguata.

Quante volte siamo stati consigliati di porci la domanda: quella cosa mi serve veramente? Mi è realmente utile o sto soddisfacendo un capriccio, semplicemente perché lo hanno tutti e va di moda?

La domanda sottintende che la stragrande maggioranza delle cose che desideriamo non ci serve realmente ed è cosa assennata porsi la questione, in modo da evitare spese inutili, risparmiando di conseguenza cifre importanti. Si sostiene ancora, che uno degli ostacoli più grandi all’applicazione della suddetta domanda è la capacità, innata secondo alcuni, di mentire a se stessi e trovare continuamente delle scuse pur di comprare.

Il desiderio di comprare qualcosa (memorizzate questa espressione) è talmente grande, che facilmente troviamo mille buoni motivi per autoconvincerci che quell’acquisto è indispensabile.

Un modo elegante per descrivere un deficiente.

La frase “Il desiderio di comprare qualcosa” cosi come viene detta non ha nulla a che fare col soddisfacimento di un bisogno, semmai con una pulsione, una voglia nel migliore dei casi, un meccanismo psichico la cui origine (probabilmente) è da cercare in stimoli originatisi a livello di organi o strutture corporee. Se nell’appetito vi sono ragioni metaboliche (la sensazione di fame può aumentare se la leptina, l’ormone che regola l’appetito si riduce a causa di una eccessiva presenza di ferro nel sangue) non si esclude che ve ne siano altre di carattere psicologico o psicosomatico.

In ogni caso, quando si vogliono esplorare comportamenti di cui le persone non sono affatto consapevoli, si entra nel mondo della psicoanalisi dove fattori inconsci determinano condizioni stressanti e d’infelicità. Non si va a cena fuori in piacevole compagnia, per appetito. Si mangia con appetito. Ma ci sono cose più interessanti in un invito a cena, o no? Il piacere, per esempio. Non sono uno psicologo e non vado oltre, mi limito ad alcune considerazioni su un aspetto che mi interessa che si chiama esperienza. Il piacere è un’esperienza (con varie sfumature s’intende).

E dunque, dovremmo parlare del desiderio con più attenzione, è un sentimento intenso e profondo, un modo per arrivare alla consapevolezza del presente, cioè che nella vita tutti seguiamo una strada. Il calpestio (fuor di metafora il desiderio stesso) è essenziale per aprire un nuovo sentiero, senza il quale ci sarebbero solo verità proclamate, strade già battute ognuna delle quali giusta se scelta consapevolmente.

Non rinunciamo a chiedere a noi stessi se sono quelle che preferiamo. Non perdiamoci nell’illusione di seguire un cammino più agile, una via più comoda. E’ una questione di stile, riguarda il nostro unico e inimitabile modo di partecipare a quel film d’avventura che chiamiamo vita e di cui siamo sceneggiatori e registi, nonché interpreti principali.

L’unica preoccupazione dovrebbe essere solo quella di procedere senza lasciarsi catturare nella trappola dell’indecisione che rende fissi e immobili.

La meta è li: oggi, domani, guarda al massimo dopodomani ci arrivo.

Restare fermi sul sentiero non porta a niente, non si arriva da nessuna parte, meglio “muoversi”; una semplice verità da tutti conosciuta.

Continuare a camminare, è l’unico modo di capire se ti trovi sulla strada giusta. Limitarsi a credere passivamente, seguire regole (imposte o suggerite non fa nessuna differenza) affidarsi a precetti e prescrizioni, imporsi un modo ordinato di fare le cose servirà a ben poco.

Il desiderio di comprare qualcosa, dicevamo: quella cosa mi servirà? Forse si, forse no! In ogni caso, saremo consapevolmente migliori. Il desiderio non è mancanza.

E’ il momento di aggiungere una postilla affinché il discorso non sia frainteso ed è la seguente: noi, persone semplici e comuni siamo desiderio?

Esattamente non lo so, ma è evidente che se non si desidera si muore.

Ma si muore ancor di più se nell’odierna società dei consumi il desiderio ci spinge a preferire l’avere all’essere, alienandosi ogni possibilità di crescita interiore. Se vogliamo esercitare libertà di scelta, che sia veramente libera con la consapevolezza che il potere, la struttura dell’economia, la cultura dominante, la propaganda dei grandi mass media, le esigenze del sistema capitalistico neoliberale attento solo ai grafici che portano in alto i tassi di profitto, condizionano e plasmano ogni desiderio. Ultimamente li modellano attraverso i social media, che da popolo, o massa in senso marxista, ci hanno trasformati in “sciame informatico”.

A questo proposito, riporto di seguito un’intervista interessante del filosofo tedesco-sud coreano Byung-Chul Han e che potete trovare a questo link.

http://www.repubblica.it/cultura/2015/04/22/news/byung-chul_han_io_apocalittico_contro_gli_integrati_di_internet_-112583291

Byung-Chul Han: “Io, apocalittico contro gli integrati di Internet”

Il filosofo tedesco-sud coreano sugli eccessi della Rete: “Quando tutto diventa così aperto anche la politica e la rappresentanza si riducono a chiacchiericcio”.

di Antonello Guerrera

b-chul-hanByung-Chul Han. La folla che tante conquiste ha ottenuto in passato oggi è soltanto uno sterile sciame. Il mondo virtuale ha perso ogni distanza e quindi rispetto. L’anonimato e la trasparenza sul web sono un male assoluto.

La cultura della “condivisione” è la commercializzazione radicale della nostra vita. Internet non unisce, ma divide. Genera un venefico narcisismo digitale. La sua estrema personalizzazione restringe, paradossalmente, i nostri orizzonti. E divora le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa.

A dirlo è Byung-Chul Han: 55 anni, filosofo tedesco-sud coreano con un passato nella metallurgia e brutale critico della Rete e del globo interconnesso. Se per alcuni è solo un catastrofico luddista, per altri Han è un lucido visionario del “mondo nuovo”. E, dopo i fortunati La società della stanchezza e La società della trasparenza , nel suo ultimo saggio, Nello sciame. Visioni del digitale ( ed. Nottetempo), Han affetta, con taglienti anatemi, i pilastri di Internet e della società digitale. “Quale democrazia è oggi possibile”, accusa Han, “rispetto a una sfera pubblica che scompare di fronte a una crescente trasformazione egotica e narcisistica? Forse una democrazia con il tasto “mi piace”?”.

Se nel 1895 Gustave Le Bon profetizzava “l’età delle folle”, per “l’apocalittico” Han oggi abbiamo a che fare “con uno sciame digitale, e cioè un insieme di individui” ottimisticamente “integrati” nella Rete (per dirla alla Umberto Eco) ma allo stesso tempo isolati. Allo sciame manca l’anima e lo spirito della vecchia folla, perché se la prima “marciava in un’unica direzione, formando massa e dunque potere “, oggi lo sciame non si raduna fisicamente e “non sviluppa un’unica voce, un Noi”. Se per Marshall McLuhan l’homo electronicus era Nessuno, per Han l’homo digitalis è un Qualcuno anonimo. Che con i suoi simili riesce a plasmare soltanto una misera moltitudine.

E quindi che ruolo ha oggi questo sciame, professor Han?
“Lo sciame digitale non crea un “pubblico”. Non conduce al dialogo o al discorso, che è il cuore di una democrazia. Una vera comunità democratica non è né massa né sciame, ma un pubblico che discute. Non a caso, il Partito Pirata in Germania si è liquefatto. Volevano essere un anti-partito, ma poi si sono dovuti organizzare come i vecchi partiti. Il mezzo digitale distrugge le basi della comunità e della cittadinanza”.

Che rapporto c’è tra lo sciame e le ondate di indignazione online o, peggio, di offese gratuite che lei chiama “shitstorm” (“tempeste di sterco”), spesso generate da utenti anonimi?

“Il mezzo digitale è strettamente legato a uno stato di eccitazione. In passato, se si voleva contestare qualcuno, bisognava procurarsi carta e francobollo, scrivere una lettera, imbustarla, eccetera. Un lungo processo che scaricava l’eccitazione. Oggi, invece, basta un clic per indignarsi e scatenare online “shitstorm” diffamatorie. Spesso la comunicazione digitale ha un enorme frastuono di sottofondo e ci fa perdere la capacità di ascoltare, facoltà cruciale della democrazia. Eppure, solo nel silenzio possiamo trovare “l’altro”. La crisi dello spirito è anche una crisi di comunicazione, scriveva Michel Butor. Inoltre il web, mescolando pubblico e privato, abbatte ogni distanza e, conseguentemente, il rispetto, che sussiste solo quando è legato a un nome, a un’identità. Tuttavia, vietare l’anonimato online non è una soluzione: faciliterebbe di molto la sorveglianza totale dei cittadini”.

A questo proposito, lei negli anni ha criticato molto la “trasparenza”, anche in politica. Perché?
“La trasparenza agevola senz’altro lo scambio di informazioni. Ma quando le informazioni sono eccessive e troppo facili da reperire, ecco che il sistema sociale passa dalla fiducia al controllo. La società della trasparenza si regge su una struttura molto simile alle società della sorveglianza. E quando diventa tutto così aperto, anche la politica e la democrazia rappresentativa vanno in affanno, si riducono al chiacchiericcio. L’ansia della trasparenza totale costringe la politica a una caducità temporale che rende impossibile programmi a lungo termine”.

E perché secondo lei la trasparenza online appiattisce, oltre alla politica, anche la lingua e la cultura?
“Perché la trasparenza è di per sé pornografica. Vuole spogliare qualsiasi cosa, trasformare tutto in informazioni. Per questo non ha niente a che fare con l’arte, cui appartengono il segreto e il nascosto, o con la bellezza”.

Bellezza che, invece, online si riduce secondo lei a puro narcisismo, se solo pensiamo ai selfie. Come mai?
“Il mezzo digitale incarna autorappresentazione e autoesibizione. Il narcisismo di oggi è sintomo di un abissale e intrinseco vuoto dell’io, in crisi d’identità e sempre più irrequieto. Del resto, nella nostra epoca nulla ha durata e stabilità. E così, questo Io ansiogeno genera la dipendenza dai selfie. Qui non c’entra la vanità. Non abbiamo a che fare con un io stabile e narciso che ama se stesso, bensì con un narcisismo negativo”.

Ma non teme di avere una considerazione troppo negativa dei nuovi mezzi digitali? Ci hanno facilitato la vita, oltre a favorire lo scambio di idee e informazioni.
“Il mezzo digitale ha un enorme potenziale di emancipazione. Però, secondo me, sta diventando sempre più uno strumento di sorveglianza. Questo è preoccupante”.

Nel suo libro c’è un’immagine sontuosa: dall'”agire” siamo passati a “giocare con le dita”. Con gli smartphone, ma paurosamente anche nel lavoro.
“Se con i nuovi mezzi digitali il lavoro diventa sempre più un gioco, il gioco viene a sua volta sfruttato per aumentare sempre più efficienza e produttività. Ma c’è di più: in questo contesto, il lavoro diventa totalizzante. E, visto che siamo sempre raggiungibili, esclude assolutamente l’ozio e il tempo libero. Contempla solo una pausa. Che però è un prodotto stesso del lavoro. Il tempo libero è ben altra cosa”.

E allora cos’è oggi la libertà?
“Il potere alla base del neoliberismo non è repressivo, ma ammaliante. E soprattutto, a differenza del passato, invisibile. Quindi non c’è un nemico concreto che limita la nostra libertà. Le figure di lavoratore sfruttato e libero imprenditore spesso coincidono. Ognuno è padrone e servo di se stesso. Anche la lotta di classe è diventata una lotta contro se stessi. Il neoliberismo fa sì che la libertà si esaurisca da sola: la società della prestazione prepone la produttività alla repressione proprio grazie a un eccesso di libertà, che viene sfruttata in tutte le sue forme ed espressioni, dalle emozioni alla comunicazione. Oggi la libertà è una costrizione. Il compito del futuro sarà proprio quello di trovare una nuova libertà”.

teatroimpresa

Interessato al mondo della comunicazione e formazione in generale, (e in particolare al più importante mezzo di comunicazione di massa, come quello televisivo) nelle sue mille sfaccettature, in considerazione dell’importanza crescente che i processi di comunicazione acquisiscono nell'ambito della società moderna determinando così profondi cambiamenti nei modelli di comportamento e nelle relazioni sociali. Sono altresì interessato al processo di formazione dell'arte in una società tecnologicamente avanzata come la nostra, in cui la realtà virtuale è sempre più pressante e invadente. L’attività si sviluppa attraverso un’associazione che opera in continuità con la propria vocazione no profit e che incarna la vocazione alla partecipazione e alla ricerca presupposti irrinunciabili ai fini di una coerente ed efficace azione progettuale e una società dedicata alle componenti progettuali e gestionali dell’azione in campo culturale, e che consente una risposta più efficace e pertinente alla crescente domanda di un approccio imprenditoriale e di una visione aziendale nella gestione dei mercati culturali.

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