i miserabili

les-miserablesI Miserabili designano insieme quelli che commettono e subiscono il male: colpevoli o vittime, la cosa è indecidibile. “C’è un punto in cui gli sventurati e gli infami si uniscono e si confondono in una sola parola, parola fatale, i miserabili”. Essi non hanno una posizione stabile nella scala sociale. Grandezze evanescenti, vicine al nulla, possono diventare quel che si vuole:

cosette-sweeping-les-miserables1così Cosette, senza genealogia, dal momento che sua madre è una prostituta e suo padre vive sotto falsi nomi, ella passa da pezzente a possidente e poi da possidente a baronessa, non avendo altra storia che quella che gli offrono gli altri, che di volta in volta se la contendono: Fantine, i Thénardier, Jean Valjean, Marius. Eroina senza carattere, ella riassume in una parola la condizione dei miserabili: “forse che io sono qualcuno?

Gigantesco, intramontabile. Un imponente intreccio di personaggi, di vite, di caratteri, sogni e speranze, ideali e storia. Affascinanti le descrizioni della sanguinosa battaglia di Waterloo, conturbante l’inutile vita casta delle suore di clausura (Ritenuta parte essenziale della consacrazione a Dio nella vita religiosa. Tale rinuncia, però, non è da considerarsi come sorgente di eroismo morale o amore per il prossimo).

enjolras_from_les_miserablesLe fogne di Parigi, l’oscura anima della città, per non parlare dei tumulti parigini. Giovani ribelli, impavidi e coraggiosi pronti a combattere. La loro saldezza di cuore e la fermezza d’animo è struggente. Una ribellione agita d’impeto senza alcuna riflessione e dunque portata con leggerezza. La nobiltà e la purezza dei loro ideali precipita in un’azione grandiosa ma breve – della cui inutilità essi stessi sono consapevoli – perché non sa distendersi in un’azione duratura.

eponimeEponine, la più miserabile fra le donne. Non ispira alcuna fiducia, e non c’è nessuno che per tutta la durata del romanzo non si sia aspettato da un momento all’altro che mostrasse il suo vero volto con un tradimento, dal momento che tutti presumevano che quello fosse. Fino a quando non la vediamo morire per amore del giovane Marius. Una vita misera riscattata da un animo generoso e da un coraggio, (forse anche inconsapevole).

Tutte le vite dei miserabili si somigliano. Ogni sentimento, che sia delicato e gentile, aspro e grossolano, è vissuto attraverso i personaggi: Fantine il sacrificio, Cosette l’innocenza, Marius la caparbietà, Thénardier la cattiveria. E poi, il tradimento, la cocciutaggine e la bontà: sono impressi in noi per sempre. E’ un’opera che non si lascia catturare del tutto, ma è proprio in questo suo rifiuto sta la sua incredibile capacità di presa.

Un libro per un domani migliore come pochi altri capolavori della letteratura al di la delle molteplici interpretazioni in cui la critica si è esercitata nel tentativo di comprendere il successo straordinario e permanente di quest’opera.

Fino a quando esisterà, per causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale, che crea artificialmente, in piena civiltà, degli inferni e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a quando i tre problemi del secolo, l’abbrutimento dell’uomo per colpa dell’indigenza, l’avvilimento della donna per colpa della fame e l’atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre, non saranno risolti; fino a quando, in certe regioni, sarà possibile l’asfissia sociale; in altre parole, e, sotto un punto di vita ancor più esteso, fino a quando si avranno sulla terra, ignoranza e miseria, i libri del genere di questo potranno non essere inutili.

I personaggi

Il poliziotto Javert e il furfante condannato alla galera a vita, Jean Valjean. Essi, in realtà sono la stessa persona. Quando finalmente il prigioniero perdona se stesso (quando salva la vita a Javert), quando armonizza gli opposti dentro di sé, allora è pronto per un Antagonista più intelligente e potente. Il vecchio Antagonista, superato, compreso, non ha più ragione di esistere, scompare si uccide. Forse, non è mai realmente esistito se non come materializzazione di un’ombra, di una incompletezza del suo Essere.

L’unico e più vero nemico è dentro di noi! Fuori non c’è nessuno da accusare né da perdonare, e nessun male che possa nuocere. Non è da temere l’Antagonista. È il migliore alleato che abbiamo mai avuto. È lui ad indicare il cammino più breve per il successo. Il suo unico e solo scopo è la nostra vittoria.

Jean ValjeanJean-Valjean-e-Cosette

Non era, come abbiam visto, di natura cattiva. Era ancor buono, quando entrò nella galera; ma vi condannò la società e sentì che diventava malvagio, vi condannò la provvidenza e sentì che diventava empio.

Indiscutibile simbolo di generosità e di bontà, sensibile alla sorte degli altri ancor più se umiliato, abbrutito dalla malvagità del consorzio umano e dalla iniquità delle sue stupide leggi. Un uomo braccato che cerca di salvarsi, il cui sguardo “pauroso ed inquieto”, è difficile da intendere. La terra è per lui, ostile e straniera ovunque vada …

“Ecco il mio passaporto. È giallo, come vedete, e questo basta per farmi scacciare dovunque vada. Volete leggere?”

… e non basta indossare un nuovo abito dai colori brillanti e vistosi di nome Madeleine, imprenditore filantropo. Un abito che si nota a distanza, trasuda spontaneità, conquista, coinvolge e avvince, contagia in modo irresistibile. Egli cerca di procurare benessere ai propri simili ed evitare a loro disagi e sofferenze. Non basta l’altruismo e la carità, la gentilezza e la comprensione, non basta la possibilità oggettiva di agire in un ruolo istituzionale, non basta indossare con convinzione quell’abito se alla sera smettendolo…

[…] tutto quello che aveva fatto fino a quel giorno non era altro che un buco, ch’egli scavava per seppellirvi il proprio nome. Quel che più aveva temuto, nelle ore in cui si era ripiegato su di sé, nelle notti d’insonnia, era che gli capitasse di sentir pronunciare quel nome; si diceva che sarebbe stata la fine di tutto, il giorno in cui quel nome fosse ricomparso, avrebbe fatto svanire intorno a lui la sua novella vita e fors’anche, chissà? dentro di lui, la sua novella anima. E fremeva al solo pensiero che fosse possibile […]

I discorsi che facciamo, i confronti in cui ci ritroviamo a discutere, confondere, approvare o disapprovare, le preoccupazioni, le gioie e le grandi emozioni.

(Non possiamo fare a meno di quel particolare modo di essere, sempre gli stessi pensieri, vecchie abitudini che non ci arrecano più nessun benessere; anzi, spesso se osserviamo bene, hanno solo un’influenza negativa sulla nostra vita e sul rapporto con gli altri e con l’ambiente.)

Non serve se quel nome è ancora incollato alla pelle e diventa occhi e orecchie. Una bocca muta e un cuore stanco, ma tutto parla di sé e dice: “io sono Jean Valjean”. Se solo potesse dimenticare quel nome.

[…] Si dice, si parla, si esclama fra sé, senza che il silenzio esteriore sia rotto; v’è un grande tumulto e tutto di noi parla, tranne la bocca. Le realtà dell’anima non cessano d’essere tali, per il solo fatto di non essere visibili e palpabili […]

E non importa quante meravigliose esperienze di benevolenza tu possa fare se continui a descriverti verbalmente cosi. Se la realtà è vista attraverso quegli occhiali cosa traggo dall’esperienza che faccio ogni giorno, momento per momento? Leggerò solo ciò che i limiti delle mie convinzioni mi permettono e mi concedono di leggere.

[…] si confessò questa cosa: che il suo posto in galera era vuoto e che, per quanto egli facesse, esso l’aspettava sempre; che il furto ai danni di Gervasino ve l’avrebbe ricondotto; che quel posto vuoto l’avrebbe atteso e attirato a sé fino a quando egli non vi fosse tornato; era inevitabile e fatale […]

Cosi è infatti, tutto cambia, di nuovo; il personaggio decide di rinunciare a quella comoda identità, e di riprendere quella infamante del galeotto, costituendosi per salvare Monsieur Champmathieu.

Esita, dapprima

[…] «Ebbene,» disse fra sé «di che cosa ho paura? Perché mi do tanto pensiero? Eccomi salvo: tutto è finito. C’era solo una porta semiaperta, dalla quale il mio passato potesse fare irruzione nella mia vita, e questa porta viene ad essere murata! E per sempre! […] […] Dopo tutto, se capita del male a qualcuno, non è colpa mia: è la provvidenza che ha fatto tutto, ed essa, verosimilmente, vuole che le cose vadano così! Ho io il diritto di scompigliare quello ch’essa ha sistemato? Che cosa vado cercando, ora? In cosa sto per impicciarmi? Non mi riguarda. Come! Non sono contento? Ma che m’occorre, dunque? Lo scopo al quale aspiro da tanti anni, il sogno delle mie notti, l’oggetto delle mie preghiere al cielo, la sicurezza, eccola raggiunta! Iddio lo vuole, ed io non ho nulla da fare contro la volontà di Dio […] […] È deciso: lasciamo andare le cose per la loro china! Lasciamo fare al buon Dio! […] […] Non pensiamoci più: ecco presa una risoluzione! […]

Ma poi,

[…] non ne provò alcuna gioia; anzi! Non si può impedire al pensiero di tornare ad un’idea, più di quanto non si possa impedire al mare di tornare ad una sponda […] […] Di lì a poco, per quanto facesse, riprese quel triste dialogo in cui era sempre lui a parlare e ad ascoltare, per dire quel che avrebbe voluto tacere, per ascoltare quel che non avrebbe voluto sentire […]

Cosa fare? Celare il proprio nome? Ingannare la polizia? Per una così misera cosa aveva fatto tutto quello che aveva fatto? Non vi era dunque un altro scopo, il grande, il vero scopo, quello di salvare non già la propria persona, ma la propria anima?

L’antagonista è ancora lì, presente, non lo si può scacciare, almeno fino a quando non lo si affronta affinché “il galeotto Jean Valjean diventi ammirevole e puro al suo cospetto”.

E’ dunque necessario andare ad Arras, liberare il falso Jean Valjean e denunciare il vero! Del resto, l’oggetto del processo Champmathieu sta non tanto nella questione di fargli confessare il furto quanto di fargli dichiarare di essere Jean Valjean: la colpa non sta nei suoi atti ma nella sua identità, il male concerne il suo essere. E’ il più grande dei sacrifici, la più straziante delle vittorie, ma bisogna farlo. “Non avrebbe potuto entrare nella santità al cospetto di Dio, se non rientrando nell’infamia al cospetto degli uomini!” Il sindaco ha bisogno del galeotto per essere grande agli occhi di Dio. Jean l’innocente e Jean il colpevole sono una sola cosa e la trasfigurazione non può aver luogo se i due visi si confondono.

Si, è un gesto sublime il suo, d’accordo, ma il prezzo è alto. Salverà un innocente, e ne rovinerà parecchi altri.

Pensa dapprima a Fantine

[…] quella donna che ha tanto sofferto, che ha tanti meriti nella sua caduta e della quale, senza volerlo, ho cagionato tutto il male? E quella bambina, che volevo andar a cercare e ho promesso a sua madre? […]

E poi a tutti gli altri

[…] qui ci sono un paese, una città, fabbriche, un’industria, operai, uomini, donne, vecchi nonni, fanciulli, poveri! Io ho creato tutto, qui, e faccio viver tutto: dovunque un camino fuma, sono stato io a mettere il ceppo sul fuoco e la carne nella pentola; io ho creato l’agiatezza, la circolazione, il credito. Prima di me, non v’era nulla: io ho rialzato, vivificato, animato, fecondato, stimolato e arricchito tutta la contrada. Via io,
se ne va l’anima; se io mi tolgo di qui, tutto muore […]

La sua autodenuncia sancirà la fine dell’opera benefica che ha intrapreso nelle vesti di Madeleine (mettendo in pericolo Montreuil-sur-mer, il paese che dipende da lui).

L’uragano dal quale è uscito a stento si scatena di nuovo in lui. Le idee si confondono e prendono quello stupore macchinale peculiare alla disperazione. Fino a quando …

[…] Jean Valjean! Vi saranno intorno a te molte voci che leveranno un gran clamore, che parleranno forte, benedicendoti, ed una sola, che nessuno sentirà e ti maledirà nelle tenebre. Ebbene: ascolta, infame!
Tutte quelle benedizioni ricadranno prima di giungere in cielo e solo la maledizione giungerà al cospetto di Dio! […]

“Restare nel paradiso, diventando demonio o rientrare nell’inferno, per divenirvi angelo!”

Il testo, se esalta il bel gesto, al tempo stesso ne evidenzia i danni. Sembra impossibile per lui incidere in modo significativo sulla realtà. Perché? La ragione di questo presto si rivelerà.

Il galeotto Jean Valjean, dall’incredibile forza fisica e dal comportamento cupo e misterioso, è un martire schivo, riservato, di poche asciutte parole. Non spiega, non argomenta mai! Parla pochissimo anche nei momenti culminanti; il processo in cui si costituisce, il combattimento sulle barricate, nel finale morendo con accanto Cosette e Marius. E’ vero, si lascia andare ad un discorso di addio finalmente torrenziale, ma è subito evidente che si tratta di un discorso anomalo. Nonostante qualche accenno all’importanza della bontà e del perdono, non trasmette una vera eredità spirituale, e si arresta una volta di più sulla reticenza, “Avevo ancora qualche cosa da dire ma fa lo stesso”. L’esperienza è ormai troppo varia e frantumata per essere guardata alla luce di univoche, incrollabili linee di condotta.

Un incontro fondamentale

Il Vescovo e il Galeotto, entrambi consacrati a due vocazioni opposte.

Forte della sua umiltà, del suo coraggio e della sua vita, tutta al servizio dei bisognosi, il vescovo. Egli, si adopera per gli altri per amore verso di essi. La sua scelta religiosa è dettata esclusivamente da questo, e dalla fede.

Il galeotto è un animale inseguito da un cane desideroso di sbranarlo e consegnare qualche brandello di quel che rimane al padrone. Se non fosse per le particolari circostanze, verrebbe da pensare a lui come una persona abitudinaria che cerca solo di scansare gli ostacoli, tendenzialmente egoista, fino a quando un qualche elemento estraneo non gli si oppone impedendogli l’azione. Vive nella necessità, non nella scelta. Non avendo alcuna passione, al contrario del vescovo, ogni scelta, se ce ne fosse una sarebbe di pura comodità.

Entrambe le loro vite paiono rifiutare di accettare l’ingiustizia del reale. Per l’uno il rifiuto è ponderato, meditato, scelto. Una limpida consapevolezza nei confronti di una società che ha lasciato gli uomini in balìa della disperazione rendendoli prigionieri della rassegnazione più totale. E’ la sua personale rivoluzione dove, implicitamente, sostiene l’auspicio di un futuro in cui la fede cristiana proceda insieme all’ardore politico. Un potere proclamato, quello di chi appartiene alla propria idea, modello perfetto verso cui tendere nell’azione e nella conoscenza.

L’altro, istintivo e rabbioso fugge alla cieca nella notte e quegli occhi umidi contengono un’implorazione e insieme a questa con sgomento, vi si legge la paura. Corre e non si guarda indietro, ha smesso di credere, di pensare e di sperare. Il vescovo conosce bene e distingue chiaramente i grassatori, i veri predoni, i saccheggiatori dell’umana vita.

Caratteri opposti, attitudini diverse: il vescovo nel canto e nell’ammirazione del pubblico da uomo libero, il galeotto al suo mestiere di fuggiasco. Questo non rispecchia la loro condizione, ma le loro convinzioni.

Il culmine del loro incontro si evolve nel modo più imprevisto, in una scena meravigliosamente eversiva: è il primo a gettarsi ai piedi del secondo, e a chiedergli la benedizione. Un’inversione di ruoli, decisamente molto ardita per l’epoca. Un gesto di una grandezza e di una nobiltà senza pari. La forza estrema degli uomini liberi, perché di tanta eccellenza essi sono capaci.

Javert

 

crowe-les-miserables

Lo conosciamo come “Ispettore Javert” o, più semplicemente, “Javert” e nient’altro.

Nasce miserabile, figlio di miserabili, trova nella legge e nell’ordine la sua sola e unica ragion di vita. “Nato in carcere da una cartomante, il marito della quale era rematore sulle galere”. Straordinariamente intelligente e consapevole di non poter passeggiare lungo l’illusione del tempo con una benda sugli occhi fingendo di essere umano, lui che non conosce umanità. Quello che succede è che arriva ad un punto in cui deve fare una scelta, chiara e definitiva. Un’intenzionale e meditata scelta è in realtà alla base del suo potere; è la comprensione e l’espressione di ciò che vuole essere in questo mondo.

Percepire che può stare in società, farne parte, esserne contenuto è la sua più grande intuizione; quella di una mente vivace, che capisce e apprende con facilità, che vede e giudica le cose con chiarezza, comprende in modo diretto e immediato senza bisogno di ragionamenti. Quindi, la necessità di assumere una netta posizione in favore (e di conseguenza in opposizione) di una parte: una parte che presto si trasforma in un modello. E’ con questa nozione elementare che scende in campo, nell’ordine previsto e assegnato a ciascuno per l’eterna partita tra il bene e il male. Egli ha definito una volta per tutte il suo dovere: la sua regola è la giustizia, per lui distinta dalla bontà, che si vuole irreprensibile piuttosto che umana.

Non ha un progetto di vita proprio, è un pensiero che sta abbracciando, ogni singolo contenuto di quel pensiero; la nozione netta, esatta, precisa, adeguata che la mente si forma di quella cosa comunemente chiamata “legge”. L’ordine è il dogma e gli basta. Da quando ha raggiunto l’età adulta e il ruolo di funzionario, ha messo nella polizia quasi tutta la sua religione ed è “spia come si è prete”.

È un uomo rigoroso e imperturbabile? Naturalmente. Intransigente? Lo è certamente, ma rimane pur sempre una negazione: io non transigo, mi mantengo irremovibile nelle mie idee. Il punto è che le sue idee non concedono altro da sé, non prevedono l’opposto, non ammettono che possa solo esistere un pensare o agire diversamente. A meno che non ci sia qualcosa di altrettanto forte da poterle sostituire (una conversione, un rimpiazzo, non un semplice contrasto). Questo sarà evidente alla fine prima di uccidersi. “Voi mi seccate” dirà.

L’incomprensibile gesto di Javert

Sarebbe vano opporre qui la morale individuale al dovere sociale. Dopo aver sottratto Javert alla giustizia sommaria dei ribelli, Valjean, anziché vendicarsi, gli rende la libertà, ma, con il suo consueto ritegno, non si cura di spiegare il proprio gesto. Concedere salva la vita al vinto, nel silenzio, è una grave offesa al sentimento di giustizia e a tutto ciò che è “di per sé” moralmente e socialmente un male. Dunque, come potrebbe essere tollerato o ammesso senza farsi indirettamente complice del male stesso?

Se Valjean parlasse… almeno, ma niente! Una parola ingiuriosa, uno sputo, un gesto sconcio, o anche un contegno intenzionalmente umiliante, lo capirebbe.

E a questo silenzio Javert replica con un brusco moto di disagio (Voi mi seccate) in cui il suo mutato giudizio sull’interlocutore trapela solo dall’inavvertito cambiamento del pronome, dall’abbandono del “tu” sprezzante per il “voi” del rispetto.

Tanta generosità da parte del galeotto è gratuita e fastidiosa, straordinaria rispetto alle circostanze. L’ordine sociale giustifica l’antagonismo fra l’ispettore e il galeotto, cosi come l’ordine rivoluzionario “legittima” il ribelle ad uccidere il tiranno; è quasi un dovere farlo. Non è tutto cosi facile e comprensibile? Certo che lo è. Lo spirito geometrico di Javert segue una linea dritta, quella di ragioni semplici e facili che conducono, per lui, a proposizioni necessarie, ovvie, sempre vere.

Per esempio: “Javert deve arrestare Jean Valjean”. Adesso “Jean Valjean deve uccidere Javert”. E’ semplicemente logico, perfettamente logico, è “l’ordine”.

Infatti  il carattere formale di ogni dialettica è che essa prescinda da ogni contenuto.

E’ cosi che stanno le cose? Ma un uomo è un pur sempre un uomo, pulsioni e passioni oltre che ragione, non possono essere cancellate con uno straccio umido. Sensibilità sempre castrata, la sua, dunque? La domanda è: quando, dopo essere stato salvato da Jean Valjean, non saprà arrestarlo… perché? Potrebbe, se lo volesse, agire ancora una volta legalmente. Lo ha sempre fatto, perché non farlo ancora?

Intollerabile, “esser costretto a confessare a se stesso che l’infallibilità non è infallibile, che nel dogma può esservi errore, che tutto non è detto, quando il codice ha parlato! Dover confessare che la società non è perfetta, che l’autorità è complicata di esitazioni, che uno scricchiolio è possibile sotto l’immutabile, che i giudici sono uomini, che la legge può ingannarsi, che i tribunali posson essere in errore! Oh, scorgere un’incrinatura nell’immenso vetro celeste del firmamento!”

Insostenibile, “un Dio cosi intimo all’uomo, l’umanità sempre recuperabile, il cuore umano che non si smarrisce mai, questo splendido fenomeno, il più bello, forse, dei nostri prodigi interiori, Javert lo capiva? Arrivava a conoscerlo, se ne rendeva conto? Evidentemente, no; ma sotto la pressione di quell’incomprensibile incontestato, sentiva che la sua testa si apriva.”

Ecco la risposta: la carità, la pietà, il perdono, un ordine di fatti inattesi lo obbligano a tenere su uno stesso fatto due discorsi contraddittori. Javert è sofferente e disorientato, la sua logica non dispone di concetti sufficientemente sottili per pensare un “cosa” così strana.

Davanti ai suoi occhi intravede, sia pure in modo confuso, una via inaspettata. Poiché Jean Valjean sulla barricata ha reso all’ispettore vita e libertà, questo di rimando deve fare la stessa cosa. Una nuova e inedita necessità. E’ dello stesso ordine, ha la stessa origine? Che cosa lo inquieta? In fondo, si potrebbe credere ad uno scambio equilibrato, niente di straordinario. La benevolenza del forzato, e lo scrive Hugo, aveva “stupito” Javert, ma la sua propria benevolenza lo ha “impietrito”.

L’atto di Jean Valjean è un dono, quello di Javert qualcosa di più: un perdono?

Dunque, cosa ci saremmo dovuti aspettare alla fine, che si fosse reso conto dei propri errori? Si fosse convertito “cambiato rotta”, rimesso alla misericordia divina finalmente riconosciuta come più grande della propria inflessibile umanità? Non c’è alcun rimorso, non perché sia stato duro e brutale nei confronti dei miserabili.  E’ solo “vittima” di un gesto di pietà dell’uomo che più ha sfidato nella sua esistenza, Jean Valjean. La sua storia miserabile riaffiora lacerando con violenza ogni fibra del suo corpo. Si, è possibile che si chieda se ha ragione lui, il galeotto, quando afferma che i peccati possono essere perdonati, e le colpe espiate, anche al di fuori della legge terrena. In ogni caso, egli non può resistere, non può fronteggiare un tale confronto, deve necessariamente scegliere di sottrarsi a tale titanica disputa.

Il suicidio di Javert

Il punto dove Javert s’era appoggiato era, come il lettore ricorderà, per l’appunto situato al disopra della rapida della Senna, a picco su quella terribile spirale di turbini, che si snoda e si riannoda, come una vite perpetua. Javert chinò il capo e guardò. Tutto era buio; non si distingueva nulla. Si sentiva un rumore di schiuma, ma non si vedeva il fiume. Ogni tanto, in quella vertiginosa profondità, un bagliore serpeggiante appariva, poiché l’acqua ha codesta potenza, nell’oscurità più completa, di prender la luce chissà dove e cangiarla in colubro; poi il bagliore svaniva, e tutto ritornava indistinto. Pareva che laggiù s’aprisse l’immensità; non v’era acqua, là sotto, ma l’abisso. Il muro del lungo Senna, scosceso, confuso, in mezzo alla foschia, facile a perdersi di vista, faceva l’effetto d’una scarpata dell’abisso. Non si vedeva nulla, ma si sentiva il freddo ostile dell’acqua e l’odore scipito delle pietre umide; un ripugnante odore saliva da quell’abisso, e la crescita del fiume, più indovinata che scorta, il tragico bisbiglio dell’onda, l’enormità fosca degli archi del ponte, il pensiero della possibile caduta in quel vuoto sinistro, tutta quell’ombra erano pieni d’orrore. Javert rimase alcuni minuti immobile, guardando quelle tenebre spalancate mentre osservava l’invisibile con una fissità che sembrava attenzione. L’acqua mormorava. Ad un tratto, egli si levò il cappello e lo depose sull’orlo del lungo Senna; un momento dopo, una figura alta e scura, che qualche passante ritardatario, da lontano, avrebbe potuto prendere per un fantasma, apparve in piedi sul parapetto, si chinò verso la Senna, poi si raddrizzò e cadde a picco nel buio. S’udì un sordo gorgoglio; solo l’ombra fu testimone delle segrete convulsioni di quella forma scura, scomparsa nell’acqua.

L’antagonista per eccellenza è lui Javert. Trovo giusto chi non lo considera un vero cattivo, bensì una persona che persegue legalmente un galeotto, non conoscendone la vera indole; semmai i veri cattivi, i nemici, sono i Thénardier. Il male irrecuperabile che fino all’ultimo cercano di approfittare del prossimo senza il minimo scrupolo. Non antagonisti ma avidi e meschini truffatori.

Torna alla pagina dei corsi

corsi