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trainingboxingmenTraining. Il tema della formazione è argomento assai ampio. Informazioni, descrizioni, competenze e “competenza acquisita” attraverso l’esperienza, istruzione, cessione e non trasferimento di conoscenza, portatrice di nuovi contenuti, nuove capacità, altri modi di pensare e di essere e che a loro volta possono e devono essere rielaborati e riproposti per essere di nuovo acquisiti con modalità superiori. Un divenire, un avanzamento verso gradi e stadi sempre più eccelsi: questo è il senso, lo chiamano progresso. In ogni cultura l’uomo ha dato spazio e impiegato risorse per tramandare e diffondere “sapere, sapienza e scienza”. Certo, ognuno ha la sua offerta “articolata di percorsi didattici”, di studio e di ricerca orientati ad approfondire questo o quel tema; ma, comunque sia e in qualunque modo la si pensi la formazione è sempre più rilevante nella realtà sociale e produttiva dei nostri giorni – a partire da una pluralità di prospettive, non solo relative alle scienze pedagogiche e dell’educazione ma saldamente ancorate anche al complesso delle discipline umane e sociali.

Anche i sassi hanno capito quanto il mercato sia competitivo, globale e sempre più dipendente dallo sviluppo tecnologico, e quanto importante è, per un’azienda la formazione: leva fondamentale per confrontarsi con la concorrenza, questo e non altro. Si richiede, pertanto, sempre più un “sistema formativo” dinamico, propositivo e attuale: la necessità, in sostanza, di trovare possibili risposte alle difficoltà che viviamo quotidianamente. Bisogna riconoscere che il mondo della scuola non sempre è all’altezza della situazione: gestione delle classi, alunni de-motivati, difficoltà di attenzione, difficoltà di apprendimento, scarse competenze relazionali e abilità sociali, necessità di una didattica laboratoriale centrata sull’alunno/persona e su compiti dettagliati, precisi, che abbiano “significato”. In realtà è tutto il sistema accademico a non essere aggiornato alle esigenze di mercato, senza nessun servizio di orientamento.

Parliamo di mercato anche se bisognerebbe, a volte, parlare di mercanti: dieci, cento, mille, che ti invitano ad entrare nei loro empori, in botteghe e negozi sovraccarichi di mercanzia improbabile, per lo più cianfrusaglie arrivate lì e disposte in ordine sparso, come relitti dopo un naufragio.

Chi spiega che non è il pezzo di carta che conta, ma sono le esperienze, e per acquisirle magari è opportuno muoversi, partire se necessario e cercare altrove ciò che qui non troviamo? C’è ancora qualcuno, oggi, disposto a prendere persone senza alcuna competenza specifica? Le aziende hanno bisogno di gente preparata, le imprese leader di successo. Si, è vero, che quelle fra le più povere non riescono a offrire posti di lavoro qualificato e spesso, a loro non resta altro che competere soltanto sul lato dei prezzi e dei costi a discapito della qualità, purtroppo.

Un mondo in continua evoluzione. Pensiamo a l’e-learning, alla possibilità cioè di imparare sfruttando la rete internet e alla diffusione di informazioni a distanza, non più limitato alla formazione scolastica, ma rivolto a tutti: utenti adulti, studenti universitari, insegnanti, ecc. Soluzione interessante e sostenibile per i programmi formativi aziendali e anche per quelli individuali per i liberi professionisti. Una sostenibilità riconducibile non soltanto all’aspetto finanziario, ma legata alla riduzione dei tempi, spostamenti e auto organizzazione nella frequenza delle lezioni da parte dei discenti. Il panorama editoriale italiano, altro esempio significativo, si sta modificando con l’ingresso dei libri digitali (e-book) acquistabili su store (librerie online) e i dati sembrano mostrare un timido ingresso destinato a crescere anche nel mondo della scuola, dove è già previsto l’ingresso dei libri scolastici in formato digitale, tale da far prevedere una richiesta sempre più ampia di titoli in formato e-book. Per non parlare delle “virtual room”, postazioni di realtà virtuale dove è possibile (e lo sarà sempre di più) fruire di simulazioni relative al mondo produttivo, come per esempio una training di cantiere edile pensato per l’addestramento degli operai sulla sicurezza. Indossando il visore, la persona ha la possibilità di interagire con l’ambiente, con oggetti e persone come se fosse realmente lì. Può svolgere compiti assegnati da un tutor virtuale ed altro ancora, apprendendo in maniera diretta e coinvolgente come svolgere la propria professione in un ambiente completamente sicuro. Non è interessante?

E la formazione teatrale?

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Il teatro ha sempre avuto un ruolo rilevante nella cultura e nella società, in quanto strumento importante per comprendere la realtà e luogo per eccellenza di incontro, esperienza e confronto. Affermare questo è cosa ordinaria ed evidente. Ma sapete? L’arte di osservare l’ovvio è completamente trascurata nella nostra società ed è un peccato. È l’unico modo per vedere qualcosa: si osserva ciò che è ovvio. Si osserva cioè, l’esistenza di qualcosa, ciò che effettivamente è lì, dove la nostra attenzione cade.

I mali ormai cronici del teatro sono da tutti ben conosciuti (la debolezza strutturale, la dispersione, l’eccesso di offerta)

Affermazione questa da taluni contestata. Si sostiene, al contrario, che l’offerta formativa e/o produttiva è nettamente inferiore alla domanda, sia in termini assoluti sia rispetto a quanto avviene in paesi europei equiparabili, come la Francia. E’ possibile. Non ho dati che possano confutare una simile dichiarazione, ma cosi a naso, come si suol dire, a me non sembra. Da ricordare che il 1999 è l’anno che ha portato incentivi alle fusioni tra soggetti teatrali.

e ancora… mancanza di riferimenti legislativi, squilibri nella produzione e distribuzione dello spettacolo, una relazione assolutamente occasionale tra formazione e produzione teatrale, un evidente impoverimento della qualificazione dell’attore e più in generale delle professioni e delle arti di coloro che lavorano nello spettacolo, fino allo spegnersi  delle competenze e dei progetti.

Il concetto stesso di professionalità tende a disperdersi, scivola via facilmente, sfugge presto come il ricordo dei grandi attori del teatro italiano: maestri straordinari e indimenticabili. Come potrebbe essere altrimenti, in un mondo dove si tende a banalizzare, omologare, sminuire, disconoscere la semplice realtà dei fatti? Siamo o no nell’epoca dei mass media, della comunicazione di massa, dell’informazione di massa, della cultura di massa… tutto è “massa”. E’ la famosa “società liquida” del sociologo Bauman, dove tutto rimane in superficie, tutto è precario, nella quale i confini e i riferimenti sociali sono persi e un vuoto profondo segna l’esistenza degli individui e della società.

Un mondo a parte, dunque, e qui la questione si fa veramente complessa. Scuole di teatro pubbliche e private, laboratori, seminari e un’infinità di progetti formativi. Un sistema autoreferenziale con scarse capacità di confrontarsi con i problemi reali delle imprese culturali e organizzazioni varie: percorsi formativi disegnati sulla base degli interessi dei docenti piuttosto che dalle esigenze del mercato. Una “iperformazione”, si direbbe, senza alcuna caratteristica funzionale a ciò che richiede quella “gran fiera” della cultura e dello spettacolo, quel luogo, cioè, dove normalmente s’incontrano tutti i giorni o in giornate stabilite, compratori, venditori e intermediari per effettuare transazioni commerciali.

La formazione artistica in Italia si muove in particolare verso la totale assenza di comunicazione tra il mondo della formazione e quello del lavoro: soffre cronicamente di scarsa aderenza alle esigenze di un mercato culturale particolarmente difficile. Eppure, sarebbe essenziale pensare alla formazione sulla base di due semplici valori (costituzionali dicono) – la persona e il lavoro. E questo significa realizzare una offerta finalizzata alla occupabilità dei singoli, cioè permettere all’individuo (cittadino/artista) di contare su un bagaglio di competenze con cui accedere nel mercato del lavoro e restarvi, adattandosi naturalmente ai continui e rapidi cambiamenti, sulla base di rinnovate conoscenza, abilità, competenze che portano anche a una maturazione sempre più articolata e profonda della personalità di ciascuno. Ovvio, no? E questo vale per tutti.

Tutto ciò imporrebbe una seria riflessione sulla qualità delle azioni formative in campo. Una cosa è certa, ebbe a dire un importante regista e drammaturgo che fra non molto citerò: “Il Teatro non ha bisogno di attori e registi, ma di uomini. Invece di formare gli artisti, bisognerebbe formare gli uomini”. Ma non nel senso, aggiungo io, di – cittadino responsabile e impegnato nel sociale. Se lo è, buon per lui. Ma non è la scuola in grado di forgiare interpreti capaci di soddisfare tali raffinate esigenze.

Il regista di cui parlavo si chiama Alfio Petrini, maestro riconosciuto del cosiddetto “Teatro Totale”. Svolge attività come drammaturgo, pedagogo, critico di teatro e di nuove arti visive. In un suo breve e interessantissimo saggio scrive:

Mai opporsi al proprio opposto. Dio ha abbandonato il mondo e si è rifugiato dentro di noi, ma non esiste una teoria o una tecnica che possa insegnarci a trovarlo in quattro e quattr’otto. L’unica possibilità risiede nell’abbraccio, che presuppone il possesso di facoltà straordinarie. L’abbraccio è il confronto con mondi strutturati che non conosciamo e che riconosciamo come altri. Questi mondi entrano in noi e noi entriamo in questi mondi, trasformandoli nel corpo linguistico e semantico dell’opera.

Una creazione artistica può prescindere dal diventare? L’opera d’arte esiste nel suo divenire, attraverso il perfezionamento continuo dell’azione combinatoria dei segni e della distillazione della forma, fino all’esattezza finale. Il diventare attiene alla dilatazione dell’anima. Da anima individuale diventa anima del mondo. Diventare pietra, diventare albero, imparare il linguaggio degli animali – come suggeriscono alcune favole – non è una punizione, ma una amplificazione dell’anima.

Anche il valore poetico dell’opera è una questione legata al destino delle cose. Quando si ammala la terra, anche il cielo si ammala. Su questo dato bisogna concentrare l’esperienza e su questo dato, soprattutto, bisogna scaricare una sorta di violenza, che non manifesta direttamente contenuti psichici e immaginari, ma tende a ricreare la realtà attraverso la combinazione di segni, l’errore nascosto sotto la cancellatura, la percezione dell’orrore radicato nelle interiora e nelle interiorità profonde della natura umana, filtrati dal comportamento poetico dell’artista

I drammaturghi, come tutti gli esseri umani, si sentono buoni. Hanno buone idee, buoni sentimenti, buon senso, buone maniere e buone intenzioni. Ma tutto questo non serve. Non serve al teatro la civiltà dei teatranti, così come non serve alla comunità nazionale la civiltà di un paese che ha comunicazioni di massa senza comunicazione, opere di socializzazione con poca solidarietà e molte solitudini, sviluppo tecnologico e scientifico che non coincide con un reale progresso umano. Gli scrittori, volendo cambiare il mondo, massacrano il teatro, cioè lo impoveriscono.

Di verità e di civiltà si muore!      

Beckett e Shakespeare non sono meno civili dell’ultimo autore civile di successo. Ben vengano allora i cattivi pensieri e i cattivi sentimenti. I nostri cattivi pensieri e i nostri cattivi sentimenti. Invece di tenerli nascosti per paura o per vergogna, mettiamoli in preventivo nelle nostre scritture drammaturgiche, suffragati dall’orrore e dallo stupore del disvelamento. Accettiamo la condizione di naufraghi senza sponde e le difficoltà dei passaggi, delle maree, degli attraversamenti che ne derivano. Ascoltiamo l’istinto e le pulsioni che, attraverso le azioni fisiche, producono pensiero. Poniamo al centro dei nostri racconti il disagio e l’emarginazione sociale, se lo vogliamo, ma non dimentichiamoci che oltre ai campi barbarici di ciò che è altro da noi esistono i campi barbarici di ciò che è altro di noi. Con due vantaggi: una maggiore credibilità e la esclusione del didatticismo. E’ della nostra natura e della nostra cultura, vergognose e incivili; è di ciò che sta in odore di eresia; è nell’ambito del dicibile/indicibile, del visibile/invisibile, del palpabile/impalpabile che dobbiamo scandagliare, se vogliamo fare qualcosa di utile per il rinnovamento delle forme teatrali.         

Macché! Invece di ricreare la realtà, cerchiamo di doppiarla. Invece di rappresentare i fatti, li descriviamo. Invece di disvelarci, ci mascheriamo. Invece di essere, cerchiamo di apparire. Invece di stimolare, lanciamo messaggi che suonano come ordini. Invece di creare veli, spieghiamo. Invece di esprimerci, chiacchieriamo. Invece di rimembrare, ragioniamo. Invece di produrre coscienza critica, facciamo didattica. Invece di dare forma alla sostanza, produciamo estetismi. Invece di praticare il partito preso nel quadro di riferimento della irriducibilità degli opposti, ci aggrappiamo all’assoluto ideologico.  Insomma, o siamo artisti o non siamo artisti. Gli artisti non hanno niente da insegnare e molto da imparare. 

Il teatro civile – una delle forme di teatro mimetico – con i suoi schemi e contorni rigidi non consente trasgressioni. Non suscita scandalo. Non produce mistero.  Si nutre di buon senso e provoca effetti mortali. Volendo edificare, conserva.  Volendo creare, distrugge. Volendo cambiare il mondo, lo conserva, perpetuandone le forme di comunicazione. Inseguendo la luce, crea il buio. Volendo dire la verità, la nega. Volendo coinvolgere, respinge. Volendo convincere, non possiede. E per fare questo di chi si serve? Di attori succubi, adibiti alla pedissequa trasformazione della parola scritta in parola parlata, perché privi delle abilità necessarie ad esercitare fattualmente l’autopedagogia come autogestione dei processi vitali. Non avendo le capacità per competere con la supremazia del regista, perdono inconsapevolmente la possibilità di essere coautori dello spettacolo dal vivo.   

Bisogna tornare alle origini. Disconoscere il teatro come un’arte pragmatica, abbandonare i vincoli che impediscono all’individuo di manifestarsi in modo totale, concretizzare il nostos nei campi barbarici delle azioni fisiche poste in posizione di centralità assoluta, perché sono le azioni fisiche – con il loro implicito carico di nascosto e di misterioso -, a caratterizzare i personaggi e non il carattere dei personaggi a determinare le azioni fisiche. 

Teoria e prassi del teatro barbarico non si affidano alle virtù miracolose dell’inconscio o alle soluzioni epidermiche della ragione, ma all’operosità di una specie umana assai rara: quella dei sognatori, dei visionari, dei pazzi luminosi che si sono lasciati il mondo alle spalle per l’incapacità a stargli dietro. Non sono persone al singolare, ma al plurale. Non sono alchimisti di forme teatrali o di stilemi coreografici, ma chimici della pluralità del linguaggio. Uomini che sanno di dover credere per vedere e non vedere per credere.  Uomini che non hanno bisogno del paraurti del tempo per vedere. Che sono in grado d’immaginare e di accettare tutto ciò che è nuovo e sconosciuto.

Che non impazziscono senza quel paraurti, ma che impazzirebbero se non lo facessero a pezzi prima d’intraprendere il viaggio di ritorno con il bagaglio di alcune consapevolezze effimere: il primo passo è quello che conta; il naufrago e la marea sono un’unica cosa; la rotta è un continuo divenire che va continuamente verificato. Si tratta di uomini in possesso di un’integrità che li tiene lontani dalle mode e che li salva allo stesso tempo dall’entrare in odore di santità. L’integrità di uomini che sono in grado di sognare e di progettare l’impossibile, attribuendogli concretezza nei labirinti di senso. L’integrità di uomini che sono diventati individui e d’individui che pongono l’integrità e l’unicità a fondamento della loro condizione e a completamento delle loro straordinarie facoltà. Lo spettacolo dal vivo non ha bisogno di drammaturghi, attori, registi o danzatori: ha bisogno di uomini, plurali e indivisibili. Per diventare uomini bisogna imparare a disimparare.

Altro che stage di perfezionamento!

Ci vorrebbero corsi permanenti di libertà e d’integrità. Questo dovrebbe essere il progetto per l’università del futuro. Un progetto di formazione fondata sulla pratica dell’alleggerimento. Per preparare i futuri sognatori, gli uomini visionari, i pensatori indipendenti bisogna alleggerirli. Occorre aiutarli ad eliminare vecchie strutture, stratificazioni d’ignoranza, concetti arrugginiti, idee obsolete, preconcetti, falsi sentimenti, paure immaginarie, ossequi alla superficie. Occorre aiutarli ad evitare paludi ideologiche, grammatiche della metafisica, domini irragionevoli della ragione, dipendenze da antiche e nuove divinità tecnologiche usate come fini e non strumenti della comunicazione. Abbiamo bisogno di uomini liberati dai legami dell’egoità, interessati a scoprire l’illusione di agire, d’investigare, senza pretendere di trasformare la contesa in vittoria. Un’illusione che non ha alcuna valenza morale o ideologica, che fa sentire l’artista su un piano di eccezionalità umana, nel preciso momento in cui attraversa le cose con indomabile stupore e pone la condizione del partito preso alla base del valore etico universale. Allora, quando questo valore si determina, genera nuove indeterminazioni. Quando fa previsioni, insinua l’imprevedibile. Quando propone il disvelamento, coglie il misterioso e l’inatteso.

 

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